La voce di una volontaria

 

Questa è la storia di una volontaria del Laboratorio di Sartoria di Casa Sant’Angela. Come nel caso dell’ultimo racconto, si basa su elementi reali ma che ha nomi e volti rivisitati. Vi darà un’altra prospettiva sullo spirito di solidarietà che anima Tilla Baby Box.

Buona lettura!

 

Sono cresciuta in una famiglia numerosa e molto unita dove ci si è sempre aiutati.
A casa nostra chiunque era il benvenuto e tutti si davano da fare: chi preparava la tavola, chi lavava i piatti, chi aiutava i genitori o i nonni durante il raccolto. Ognuno sapeva esattamente cosa fare e non c’era tempo di poltrire.
Anche quando le giornate erano dure, stancanti, fredde nessuno si fermava a lamentarsi. Lo sguardo di mia nonna teneva tutti sotto controllo. Il suo affetto non era fatto di abbracci o carezze, erano le minestre calde dopo una giornata pesante o un bicchiere di vino rosso per scacciare via i pensieri.
Abbracci e carezze sono arrivati solo più tardi, crescendo. Sono arrivati quando la vita ha iniziato a farsi sentire con il suo lato più duro mettendoci tutti alla prova. Lei si è trasformata: da generale pronto a mettere tutti in riga, i suoi tratti si sono ammorbiditi e i suoi ordini sono diventati più parole di conforto e riflessione. “Non date per ricevere, ma date per fare del bene”.


A lei penso ogni sera che esco dal laboratorio di sartoria. Penso che se potesse sarebbe con noi a farci compagnia, a chiacchierare, a insegnare alle ragazze come ricamare o imbastire gli zainetti. Penso a lei ogni volta che arriva una nuova ospite e incrocio il suo sguardo timoroso. Lo so che quando mi vedono hanno tutte paura di me ma è questa miopia che mi fa strizzare gli occhi e sembrare un generale.
Io in realtà le accolgo tutte come se fossero parte della mia famiglia perché posso solo immaginare cosa stanno vivendo o cosa hanno vissuto. Metto loro in mano ago e filo per alleviare i loro dolori, per farle svagare e sentire a casa, ben volute. Se si concentrano sulle mani e su imparare nuove cose la loro testa rimane lì e non vaga alla ricerca di pensieri o ricordi da dimenticare.

A volte le ragazze con cui c’è più confidenza scherzano perché sono pignola: se l’orlo è rovescio si disfa e si riparte. Ma è come nella vita: gli errori si fanno ma la seconda possibilità, se esiste, va sfruttata fino in fondo. Sempre.

Non chiedo mai di raccontarmi come sono arrivate al laboratorio perché sono faccende troppo delicate ma dopo qualche giorno arrivano da me e con una scusa qualsiasi si confidano. So che quel momento è la prima tappa di un percorso lungo che però le aiuterà a ripartire con una nuova vita e mi emoziona sapere di essere lì con loro in questi momenti.

Ma non è tutto così semplice. C’è anche chi rimane sulle sue e si mostra diffidente, chi passa il tempo in laboratorio con le spalle basse e la voglia di andarsene il prima possibile. Sono ragazze e mamme il cui dolore è così forte che se potessero urlarlo diventeremmo tutti sordi. Sono loro quelle che hanno più bisogno di me e delle altre volontarie. All’inizio non sapevo cosa fare ma poi ho capito: con loro non servono parole, solo fatti. Non servono le carezze, serve la minestra.
La fiducia si costruisce un passettino al giorno, lasciando il rocchetto del loro colore preferito sulla macchina da cucire, coinvolgendole sempre e comunque senza abbassare la guardia. Proprio come faceva mia nonna con noi. Ed è proprio grazie a mia nonna che ora sono qui. Grazie ai suoi insegnamenti, al suo dare per fare del bene.

Sono un po’ preoccupata quando cammino per strada e vedo persone comportarsi come se tutto gli fosse dovuto, senza fermarsi a pensare che vivono in una comunità fatta di persone con le loro necessità e fragilità. Come si può ignorare l’importanza della comunità, del sociale, di aiutare chi ha meno di noi? Sarà che sono cresciuta prendendomi sempre cura delle persone e trovo incomprensibile che anche altri non facciano altrettanto.

Alla mia età ammetto che non è facile conciliare figli, nipoti e acciacchi con questo laboratorio. Partecipo perché so di fare del bene agli altri, ma allo stesso tempo è un modo per fare del bene anche a me stessa. Tenere le mani impegnate mi aiuta a sentirmi utile e come succede ad altre, la compagnia che trovo al laboratorio è un buon antidoto per le giornate in cui vorrei avere ancora il mio adorato Pietro a stringermi la mano.

Vengo al laboratorio perché quando mi chiudo il portone alle spalle sorrido pensando al viso di nonna Amalia che mi direbbe di essere più severa ma che, se avesse potuto, avrebbe fatto di questo laboratorio una famiglia ancora più grande.

 

 

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